Lì PER ME - JOHANNES HØSFLOT KLAEBO

Lì PER ME - JOHANNES HØSFLOT KLAEBO

07/11/2022

 

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Io ho bisogno di avere felicità, nella mia vita.Merito di averla, come chiunque altro. Atleta o non atleta. Adulto, non adulto, o qualcosa a metà tra i due.

La prima volta in assoluto in cui ho fatto un risultato importante avevo 17 anni: troppo piccolo per essere davvero un adulto, ma con troppi chilometri nelle gambe per sentirmi ancora un ragazzo.

C’erano già tante albe di fatica, infilate nel mio zaino.

In quella stagione mi ero rotto il pollice e non avevo gareggiato.

Sono guarito giusto in tempo per prendere parte all’ultimo appuntamento dell’anno, una sprint nazionale, gara che non avevo mai provato prima di allora.

Mi sono messo a spingere con gambe e braccia: tutto quel che avevo, senza fare alcun ragionamento, senza avere nessuna aspettativa.

Ho chiuso la qualificazione con il secondo miglior tempo, stupendo me stesso, prima degli altri. Da ottantaduesimo della nazione a secondo, da sconosciuto a nome che gli altri erano costretti a leggere, incuriositi, in cima al tabellone.

Poi, i veri lupi di mare delle sprint hanno cambiato marcia ed io sono uscito in semifinale. Lo so perché, oggi, sono uno di loro.

Ma l’impressione che mi fece quel weekend, completato dal quarto posto nello skiathlon del giorno seguente, fu enorme.

Diede un significato al lavoro fatto fin lì, agli allenamenti del nonno, al sudore.

Mi fece capire che anche io potevo essere come i miei idoli d’infanzia.

Fu un’epifania, e come tale è rimasta nella mia memoria.

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Però, e questo forse è un fatto strano, più che della gara e del gusto della soddisfazione, ciò che ricordo davvero di quel weekend è il tempo passato con i miei amici di sempre, anche loro sciatori come me.

Nascosti nella nostra camera, in un albergo austero, pieno di atleti professionisti, consumati, pieno di persone con la testa sulle spalle, di cose da fare, di agende precise e di acido lattico, lì in mezzo noi ci godevamo la spensieratezza dei nostri anni.

Mentre tutti pesavano al grammo quel che dovevano mangiare, noi bevevamo cioccolata calda.

Mentre tutti riposavano noi correvamo nei corridoi a bussare alle porte degli altri, per poi scappare.

Mentre tutti vivevano per lo sci, noi lasciavamo che avvenisse l’esatto contrario.

Quel momento, quell’albergo, quello sport: tutto era lì per noi.

Per farci essere felici, per divertirci.

E allora ho capito che il solo modo che avevo per provare a sostenere risultati come quelli ottenuti in quel fine settimana era continuare ad essere chi sono.

Sempre.

Perché ho bisogno di avere felicità, nella mia vita.

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La leggerezza me la da, innanzitutto, la disciplina stessa.

Da piccolo volevo fare il calciatore, poi mia mamma mi ha fatto notare che un calciatore non può essere solo potente: deve essere anche resistente e correre per 90 minuti senza fermarsi mai.

Nonostante io abbia fatto della mia vita un concentrato faticoso di sacrificio, neve e ghiaccio, quella spiegazione, stranamente, mi bastò.

Mi sembrò perfettamente logica, e così mi concentrai sullo sci di fondo.

Lo sci di fondo era da sempre il mio miraggio, il mio momento di pace con l’universo.

Non avrei mai pensato mai di arrivare lontano.

Lo sognavo, piuttosto.

Ma era uno di quei sogni lontani, dolcemente eccessivi.

Quasi infantile, nei modi.

Come i bambini che vogliono fare l’astronauta, diventare il Presidente degli Stati Uniti o un grande attore: non c’era arrivismo nel mio desiderio, non c’era una seconda motivazione.

Non c’era un piano.

Immaginavo di diventare come Petter Northug, forse di diventare proprio Petter Northug, con i suoi muscoli d’acciaio, la sua mascella squadrata, e le medaglie appese al collo.

Una volta, a scuola, finsi di avere un mal di pancia fortissimo, pur di farmi venire a prendere dalla mamma e poter guardare in televisione la sua gara ai Campionati Mondiali.

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Lo sci di fondo era ciò che mi muoveva l’anima, e questo lo devo al mio spirito, alla mia famiglia, e ai maestri che ho avuto la fortuna di incontrare.

Fin dalla prima volta che ho messo gli sci ai piedi mi sono sempre ritrovato in squadre costruite con le motivazioni giuste, guidate da allenatori che avevano l’unico scopo di far sentire tutti parte di un gruppo.

Prima di formare un buon atleta, prima di farmi imparare la tecnica classica e quella libera, il loro obiettivo era farmi divertire, farmi sentire al posto giusto.

Non è un caso che i miei migliori amici siano ancora quelli che hanno iniziato a sciare con me, e non è un caso neppure che io sia ancora innamorato della disciplina.

Perché lo sport è uno strumento di conoscenza del mondo, che ti prepara a quanto succederà crescendo, che ti mette di fronte ai tuoi veri colori.

Esami, colloqui, test: lo sport te li pone davanti subito, fin dal primo istante e ti insegna a scendere a patti con gli errori e con i fallimenti.

Rivela chi sei, soprattutto a te stesso.

Molte persone, quando arrivano ai 30 anni iniziano a rimpiangere di non averne fatto di più. Si accorgono che il lavoro diventa l’orologio della vita, e quel che prima avresti potuto fare a piacimento, adesso chiede tutti i ritagli del tuo tempo.

Fare sport diventa un lusso, e come tutti i lussi è molto costoso.

Quindi, io sono immensamente grato a chi, per primo, mi ha fatto vedere la sua bellezza intrinseca, che trascende il successo, i risultati e anche il talento.

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Che poi, con il nonno che mi ritrovo, era soltanto questione di tempo prima che mi innamorassi dello sci di fondo. Era scritto nel destino.

Ricordo quando mi veniva a prendere a scuola e mi portava sulla neve, dove costruivamo i nostri salti e i nostri anelli.

Non parla molto, il nonno.

È un uomo timido.

Ma quel poco che dice è anche quel poco che serve, perché la vita è gioco di reputazioni: meno cose mi dici e più attentamente le ascolto.

La verità, qualunque essa sia, sta nel palmo di una mano.

 

Lui e la nonna sono l’espressione vivente di una generazione diversa, eppure amica. Distante e antica, eppure incredibilmente moderna.

Facevano di più, con poco.

Si sono guadagnati tutto a fatica, in un’epoca in cui non c’era niente, ma non hanno mai perso il senso del gioco, della condivisione, della prospettiva.

Mia nonna continua a sfornare il mio pane, tutti i giorni.

Il nonno, da quando è diventato il mio allenatore, non ha smesso di scrivere i miei programmi. A 80 anni non perde un giorno, legge, si informa, studia con la veemenza di un ragazzino. Sale sugli aerei, gira il Mondo, scrive pagine di esercizi, mi sgrida, mi motiva.

Mi allena.

Non smette mai di insegnare quello che sa, né di domandarmi quello che so io.

Con lui ci sono anche mio padre, che mi segue in ogni spostamento, e mia madre; i miei fratelli e gli amici d’infanzia: tutto è cristallizzato nel tempo, pur continuando a progredire spedito.

Come un treno di ghiaccio che si mangia i binari davanti.

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Forse per questo sono un ragazzo felice.

Il mio sogno di bambino è diventato un viaggio condiviso, e tra le pieghe di questo dialogo mi posso proteggere anche dai rischi di una vita di sport.

I rischi del fallimento e della sconfitta, che potrebbero anche arrivare, ma che non scalfiranno l’amore che prova nei miei confronti chi lavora con me.

Il fallimento, prima o poi, arriva di certo perché su di lui è costruita la natura stessa dello sport, e come lui possono arrivare anche la solitudine, la stanchezza, il dubbio.

 

Se sei fermo, allora stai peggiorando: tutto funziona così.

Quando la gente parla di una tecnologia, vuol dire che è già obsoleta.

Quando arrivi in alto, tutti provano a copiarti, proprio come facevo io con Northug, che quando sono diventato suo compagno di squadra non facevo altro che seguire lui e i suoi consigli.

Ma una copia resta pur sempre una copia, e per varcare cancelli inesplorati non puoi permetterti di assomigliare a qualcuno. Devi farlo a viso scoperto.

In tanti hanno opinioni su quello che dovrei fare, su come dovrei allenarmi o su come dovrei sentirmi dopo un’edizione delle Olimpiadi. Ma è proprio l’opinione altrui che va dimenticata per prima, affidandosi a chi ti conosce, a chi vuole il meglio per te.

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Con il nonno prendiamo sempre questi grossi obiettivi, come i Giochi di Milano Cortina, finalmente i miei primi in Europa, o come i Mondiali 2025 di Trondheim, che si terranno a 5 chilometri da casa nostra, e li facciamo a pezzetti.

Li scorporiamo, trasformandoli in piccoli gradini.

E su quei gradini saliamo insieme, passo passo, cercando di non essere troppo duri con noi stessi e di accettare quello che la mente e il corpo hanno da dare, giorno per giorno.

È difficile, e spesso richiede un atto di forza.

Un atto di solitudine.

Quest’anno, per esempio, sarò il solo atleta norvegese uomo a fare la preparazione in altura, a Livigno, perché anche se la federazione ha preferito evitare, io so quanto sia importante per me e per i miei successi.

Io so che può fare la differenza.

E se questo significa essere da solo, con addosso tutto il peso del mio allenamento e soprattutto delle mie scelte, va bene lo stesso.

Perché la mia famiglia è qui, e loro, sotto alla tuta del campione olimpico, continuano a vedere anche il figlio, il nipote, il fratello.

E sempre sarà così.

Atleta o non atleta.

Adulto, non adulto, o qualcosa a metà tra i due.

 

 

 

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