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Icon di Giulio Molinari

Scritto da Livigno | 13 settembre 2021


Frazione numero uno.

Loro, gli altri, ne hanno già fatti 400, poi 500, poi mille.

Resto fermo sulla riva del lago, con gli occhi persi nei riflessi rossi delle boe, legate agli atleti affinché le barche di soccorso possano trovarli in caso di necessità.

Quel fascio di luce artificiale, frutto della mano dell’uomo, rischiara la superficie nera del lago di Livigno. Sembrano un branco di guerrieri, partiti fianco a fianco, alla conquista di qualcosa. Qualcosa di condiviso, eppure personale, che affonda le radici in una ragione antica e unica, probabilmente non ancora del tutto compresa.

Stessa strada per tutti, ma motivazione diversa per ognuno di loro.

E dentro l’insieme di tutti i “perché” si nasconde la potenza di una volontà comune.

 

Mentre vengono inghiottiti dall’oscurità dell’acqua e delle montagne, mi tornano in mente le lanterne cinesi liberate nel cielo, che pur partendo da mani piccole sfidano l’enormità dell’orizzonte, riempiendoti d’orgoglio fino a quando non le perdi di vista.

Che si siano spente dietro aduna nuvola o che siano arrivate fino ad accendere un pianeta, poco importa: viaggiano sole, abbandonate al loro destino.

Io parto tra un’ora.

Lo faccio perché voglio fare un’impresa.

E il risultato di quella stessa impresa convincerà le persone a fare una donazione.

È la sola cosa che conta, oggi.

Alle mie spalle, casse giganti fanno risuonare note che quasi non sono musica.

Un battito cardiaco mascherato da melodia vibra di bassi profondi, e se ascolti mentre guardi i profili delle montagne, illuminati da una fetta di luna, sembra quasi che quello sia il cuore della terra.

Batte un colpo al minuto.

Perché la terra è enorme e ha il cuore grande quanto una città.

Disseminate lungo tutta la partenza, le lingue di fuoco dei falò stracciano l’aria, bruciandola, e proiettando piccole scintille di lava nell’atmosfera, che come coriandoli di luce illuminano la faccia dei presenti e poi muoiono per terra.

Mi sento solo.

Non ho né caldo né freddo.

Sono circondato dalla mia squadra, dalle persone a me più care, che mi parlano, mi fotografano, mi fanno ridere con una battuta.

Ma mi sento solo lo stesso.

Non ci sono alternative all’egoismo per portare a termine l’Ironman più duro del Mondo e oggi, io, non faccio eccezione. Anzi: io sono la regola.

Senza chi mi vuole bene non sarei nessuno e non farei niente ma, stringi-stringi, quando il momento è quello della verità, mi sento comunque solo.

Mi ci sento dal risveglio.
Mi ci sento da ieri.

Mi ci sento da un anno.

Dentro ad un letto troppo freddo, dove dormo di traverso per sentirmi più grosso, come di fronte all’acqua a dodici gradi che mi sta aspettando: è lo stesso, non cambia nulla, se non il contorno.

 

Sono pieno di dubbi.

Perché questa gara era la nostra gara, perché sono a casa mia e tutti mi guardano, perché voglio fare bene per fare del bene e, in maniera molto più cruda, perché l’ultimo Ironman non l’ho neppure finito.

A Copenaghen, dieci giorni fa, ho lasciato le cose a metà, fermandomi per la prima volta in carriera, durante la maratona finale. Il suo fiato nel mio fiato, la terra sotto i piedi si faceva sempre più pesante, collosa. E così il dolore mi ha attraversato di corsa, come non gli avevo mai permesso di fare fino ad allora.

Fino ad allora non mi ero mai ritirato, piuttosto avrei finito la gara sui gomiti, perché arrivare al traguardo era il solo modo che conoscessi di onorare quel che avevamo fatto insieme, io e Carlotta. La sola maniera per sentirla ancora qui.

Invece mi sono fermato. Arrivato al punto di non ritorno, l’ho fatto davvero, per poi scoprire che, alla fine, non succede nulla.

La vita è andata avanti e il più deluso di tutti ero io.

 

Ecco perché essere qui, con i piedi a mollo nel lago, col cronometro che si avvicina allo zero, è tutt’altro che scontato e nella solitudine che sto vivendo sento il giusto grado di disagio: la paura di non farcela, le aspettative della mia gente, un obiettivo più grande di me.

Mi tuffo.
Da solo.
Piccolo e nudo di fronte alla grandezza delle montagne più belle del Mondo.

La luce di una canoa mi accompagna. Tutto fino all’alba sarà nero, che si trovi sotto o sopra la linea dell’acqua. Unica guida: la luce artificiale laggiù in fondo, faro per il viandante, in un viaggio cominciato di notte.

Centonovantasette chilometri.

Frazione numero due.

In acqua ho già superato 19 concorrenti, e per ogni persona che passavo mi interrogavo sui loro motivi, su quale fosse la ragione per cui mettersi alla prova così. Molti, se non la maggior parte, sono dopolavoristi, semplici appassionati, che mettono il proprio corpo al servizio dello spirito. E questo ci rende tutti, in qualche modo, fratelli.

Tolgo la muta e inforco la bici, il sole si sta timidamente affacciando sulla valle, e so che nel corso delle prossime ore avrò freddo, poi caldo e poi ancora freddo.

Pedalare è la cosa che mi piace di più e il nostro programma è quello di fare la differenza qui. In tanti faticano a prendere ritmo e a scaldare il corpo infreddolito dall’acqua, ma la mia squadra ha pianificato tutto alla perfezione, e giriamo come un orologio da taschino.

197 chilometri e 5000 metri di dislivello non sono uno scherzo.

Per quanto possano piacere la bicicletta e la montagna, questo è un percorso disegnato apposta per scavarti nell’anima, per metterti di fronte ai mostri che hai dentro e alla faccia struccata ed ansimante della fatica.

Io voglio vincere, e voglio vincere perché se vinco, e sorpasso tutti, raccoglieremo tanti soldi, daremo linfa al lavoro dell’associazione no profit “Il sorriso di Car-lotta” e soprattutto sarò fedele a quello che sento nel cuore, e non soltanto nelle gambe.

La bici è la mia frazione preferita, e mi bastano pochissime pedalate per capire come andrà a finire la giornata. Le gambe girano da sole, per una volta più veloci dei miei pensieri e mi mangio l’asfalto, chilometro su chilometro.

Salita dopo salita recupero gli altri.

Guardo le loro smorfie di dolore sui tratti più ripidi: la forza di volontà è contagiosa e di questa elettricità siamo tutti conduttori.

La magia dei tornanti ti fa sembrare vicino anche chi non lo è ancora, e vedere una sagoma ciondolante davanti, poco distante dalle mie ruote, mi da quel briciolo di energia in più, che serve sempre.

Il nostro piano prevede di raggiungere il gruppetto dei migliori sul passo del Foscagno, che non è tra le mie salite preferite, e per questo, a inizio estate, l’ho fatto e rifatto decine di volte, cercando di rubare i trucchi a chi di mestiere fa solo quello, ed è di casa quassù. Gente come Viviani e Consonni.

Ma oggi non ci sarà bisogno di alcun tipo di trucco.

La mia mente è serena, i muscoli vivi. Anche se tutto quello che mi circonda, dalle valli agli amici, dagli sguardi ai ricordi, ha un peso enorme, oggi riesco ad essere piacevolmente distaccato.

Riesco a controllare il coinvolgimento emotivo e focalizzarmi sulla consapevolezza del gesto.

 

Sulla discesa dello Stelvio disegno qualche curva perfetta.

Tocco i 100 chilometri all’ora.

Non ho neppure il tempo di pensare.

Ho superato tutti, e sono rimasto solo.

Il salvadanaio della beneficenza è pieno e tintinna sulla mia schiena, sento che la gara è vinta. Adesso però bisogna concluderla.

42 chilometri.

Frazione numero tre.

Le ore cominciano ad essere tante, ed è tornato il freddo. Il giorno che abbiamo visto nascere si sta spegnendo poco a poco, e mi restano le fatiche di una maratona in montagna per vincere la gara più dura del Mondo.

Scendo dalla bici e mi metto a correre. I primi minuti sono un assaggio di felicità. Questo è il sapore della libertà: dopo ore incastrate dentro ad un movimento concentrico le gambe si sciolgono nell’eccentricità della corsa.

È tale il piacere che devo stare attento a non esagerare col ritmo, o rischio di arrivare corto. L’enormità dei 42 chilometri, dopo oltre 8 ore di fatica, non può essere presa di petto, ma va fatta a pezzetti piccoli. Bocconi digeribili, che riducono il “tutto” a tanti “un po”, trasformando una strada infinita in una rampa di scale.

Venti minuti, primo gradino, e poi mangio qualcosa.

Altri venti e poi c’è la salita che mi piace tanto.

Cose del genere.

 

Il percorso ci porta per la prima volta nel cuore del paese.

Un paese che di notte dormiva, e che durante il mattino ci ha seguito online, osservando la tracciatura dei nostri GPS.

Livigno.

Livigno che ci aveva adottati e che continua a coccolare me, mi circonda di un abbraccio caldo, e metro dopo metro la solitudine della partenza si scioglie in un sorriso felice. Agli angoli delle strade, ben distanziate le une dalle altre, mi aspettano tante famiglie e tanti curiosi. Mi incitano chiamandomi per nome. Mi sorridono.

La paura di deluderli, la paura di ripetere Copenaghen, la paura di non raccogliere i soldi che volevo: tutto sparito come un ombra lontana.

È come se tutta la comunità, dietro ad ogni applauso, dietro ogni incitamento, si fosse presa un pezzo della mia paura, un chilo a testa.

Incrocio un bambino, avrà sei, sette anni.

Mi chiede se sono “proprio Molinari” e gli rispondo di sì.

Si mette a correre al mio fianco.

10 metri, poi 15: è felice, ma rispettoso, e mantiene le distanze.

Allora sono io a deviare, avvicinarmi e dargli il cinque.

Investito di una responsabilità nuova, come se fosse il prossimo staffettista, il piccolo accelera. Esagera un po’ e poi si ferma. “Vai Giulio” mi grida.

 

Mi sento a casa.

Tutto è al posto giusto: la mia squadra è perfetta in ogni cambio, in ogni richiesta, davanti a me non c’è più nessun uomo e nessuna donna, soltanto la strada.

L’emozione di rivedere i posti che erano nostri, miei e di Carlotta, è come attutita dall’amore della gente.

Il dolore c’è, ma non fa male, e corre insieme a me come un vecchio compagno di fatiche.

I chilometri prima dell’ultima ascesa, verso il traguardo del Carosello 3000, sono talmente leggeri da passare quasi troppo in fretta.

Silenzio e rumore, il caos che hai dentro e la calma della montagna, la serenità dei passanti.

Lo faccio per me.

Lo faccio per me e per chi mi vuole bene.

È un momento identico agli altri, ma non per chi è in gara.

Serviranno giorni per far passare la sensazione di grandezza.

Servono anni per imparare a gestirne le risacche.

La salita conclusiva è quasi un ritorno alla partenza, con la natura che vuole riprendersi lo spazio per un’altra opinione personale. Inizia a gocciolare. Gli atleti che sono più indietro finiranno sotto i colpi di una grandinata improvvisa.

Io la evito di poco.

Sugli ultimi tornanti sterrati incrocio delle mucche irlandesi, quelle pelose, che mi guardano con fare distratto. Quando ripasserò qui, in inverno e col gelo, mi restituiranno lo stesso identico sguardo imprigrito.

Arrivo ai cento metri, sfiancato da oltre 12 ore di fatica, ma col passo molto più leggero di quello che avevo in partenza. Lascio i bastoni e lo zaino ai componenti della mia squadra e cerco di chiudere su una nota alta.

In cima.

Se vinci Icon il traguardo non lo tagli, ma lo sollevi al cielo, in modo che anche chi arriva dopo di te, e alcuni lo faranno nel cuore della notte, possa alzarlo a sua volta.

 

Mi circondano in tanti, mi circondano tutti quelli a cui voglio bene, quelli che conoscono la misura della mia sofferenza e della mia solitudine.

Quelli che non mi sono stati a fianco 13 ore, ma una vita intera.

Vorrei dir loro “grazie”, uno per uno.

Ma non faccio in tempo, perché lo dicono prima di me.

Tutti quelli che affrontano l’ironman più duro del Mondo lo fanno per rispondere ad un’esigenza profonda, nascosta alla vista degli altri. È un bisogno che bussa dentro, che magari non sai esprimere a parole, e che puoi soddisfare solo nella fatica silente.

Il mio bisogno ha un nome ed un cognome, un testimone difficile da portare avanti.

Ma oggi è una giornata perfetta.

Sono quello che torna a casa con la borsa piena, col cuore più gonfio, con gli occhi più stanchi.

Perché nonostante tutto quello che è successo, io sono ancora fortunato.

 GIULIO MOLINARI / CONTRIBUTOR