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La legge di Murphy | di Letizia Paternoster

Scritto da The Owl Post x Livigno | 21 maggio 2021

Io sono prima la ragazza, la donna che ama andare in bicicletta, che vuole raggiungere i suoi sogni.
Perché i miei sogni sono prettamente a livello sportivo in questo momento.
Sono grandissimi.
E io davvero potrei rinunciare a qualunque cosa pur di arrivare al mio sogno.
Le persone sicuramente non lo sanno, le persone non lo potranno mai capire, perché è una cosa che sento io.

Inforco la mia bicicletta e mi metto in sella.
Una salita.
Un’altra ancora.
Nel sole di Livigno a lavorare sulla forza, a macinare chilometri in altura per riprendermi quello che, per un attimo, ho temuto di aver perso, e che tante persone sono subito accorse a giudicare.
La vita dell’atleta è strana, perché è un costante saliscendi di felicità e di paura, di esaltazione e di tristezza, sempre dipendenti dallo stato di forma, dalla salute, dai risultati, dagli infortuni.
E ognuna di queste cose sa essere capricciosa, se vuole, e imprevedibile.

 

 

L’anno scorso è stato un anno terribile, in cui qualsiasi cosa potesse andare storta, alla fine lo ha fatto.
Mi hanno investita durante il mio primo allenamento dell’anno. Risultato: un polso rotto e tante giornate perse durante la preparazione per le Olimpiadi di Tokyo.
Poi è arrivato il lockdown, esperienza che tutti quanti abbiamo condiviso.
Ad aprile, però, quando è stato il momento di tornare in bici mi sono subito accorta che qualcos’altro non era a posto.

È stato un infortunio strano, stranissimo, che mi è costato più tempo e più preoccupazione di quanto mi sarebbe costato rompermi qualcosa in maniera più “classica”.
Il mio invece era un fastidio sordo, subdolo, che non mi lasciava mai e che, probabilmente, ho anche la colpa di aver sottovalutato. Il ginocchio non rispondeva come avrebbe dovuto, con il male al tendine che si è lentamente spostato sulla cartilagine, giorno dopo giorno, rendendo la mia vita un inferno.



Non riuscivo più a fare nulla.
Non a pedalare, non a correre, faticavo persino a camminare.
Sono arrivata al punto di dover comprare un monopattino elettrico per andare a fare la spesa. Vivendo da sola me ne dovevo occupare io, e quando ci andavo a piedi non tornavo più a casa dai dolori lancinanti che avevo.
La cosa più difficile per me è stata proprio quella di non poter fare nessun tipo di attività. Io amo correre, amo lo sport. Amo fare qualunque tipo di sport.
Se mi togli la bici, cosa che già mi fa traballare dentro, e poi mi togli anche il resto, inizio a vedere tutto annebbiato.
In più sapevo che le altre, le mie avversarie, stavano continuando ad allenarsi e crescere, mentre io restavo ferma lì.
Anzi non restavo ferma, ma arretravo.
Le altre andavano avanti e io indietro.

Non c’era modo di guarire, piangevo di giorno e non dormivo di notte.
Ho avuto tantissima paura, era la cosa che più mi ammazzava, diciamo.
La paura di non tornare.
La paura di non essere più quella di prima, che è una cosa stupida alla fine, perché se sei diventata così una volta è perché hai i numeri per poterlo ridiventare una seconda.
Adesso sì, col senno del poi, ci penso ed è vero: “posso tornare quella di prima.”
Ma quando sei là, che sei immersa in un tunnel nero, fai fatica a comprendere e davvero a credere in tutto questo.

Mesi interi lontana dalla strada, lontana dalla pista, lontana dalla palestra.
Lontana da tutto.
È stato in assoluto il momento più duro di tutta la mia vita.
Sapevo che nella carriera di ogni sportivo, anche dei più grandi, questi momenti arrivano. È fisiologico. Lo leggi nei libri, lo leggi nei racconti, e qualcosa dentro di te sa che il lieto fine è possibile, sa che poi si ritorna a fare quello che si faceva prima.
È quello in cui vuoi credere.
Viverlo però è diverso, perché ogni sensazione negativa s’ingigantisce, e mette a tacere tutti i pensieri positivi di cui sei ancora capace.



In tanti hanno iniziato a parlare, a commentare i miei post sui social, saltando alle solite conclusioni affrettate. Persone che non mi conoscevano hanno cominciato a bastonarmi, accusando che mi sentissi arrivata, che avessi perso il mio fuoco per la competizione e che avessi testa solo per i social o le comparsate in televisione.
Mi hanno fatto sentire sbagliata.
Perché raccontare la mia vita mentre non potevo fare il mio lavoro era diventata una colpa. In aggiunta al dolore fisico, ho sentito anche questo, che è forse più distante, ma non meno pesante. E mi sono chiusa a riccio, sperando di trovare la soluzione del puzzle.

Solo dopo sei mesi senza toccar pedale siamo finalmente riusciti a sbrogliare la matassa, a mettere a posto le cose, trovando l’origine del problema e aggiustandolo, un passetto alla volta, non senza fatica.
Sono rimasta aggrappata alle persone che mi volevano bene, alla famiglia, ai partner che hanno creduto in me, nella convinzione che, prima o poi, mi sarei andata a riprendere tutto.
Quando sono tornata in pista, a ottobre, prima di tutto, ho dovuto fare i conti con una persona che non riconoscevo più. O quasi.
L’inattività è una bestia difficile da addomesticare, perché l’atleta che vedi allo specchio ha proprio la tua stessa faccia, ma non sei tu, il corpo è tutto da ricostruire.
Quindi figurati: il muscolo, abituato a tanto allenamento, sciupato.
Il peso che avevo perso.
La forza che non c’era più.
Uscivo, vedevo numeri dei wattaggi, e dicevo:

“ma sono io questa?
Ma come faccio io a tornare a certi tipi di sforzi e di numeri?”

E proprio quando ho ricominciato a sentirmi a mio agio dentro le mie scarpe, proprio quando ho pensato di essere arrivata in fondo alla mia galleria infinita, mi sono presa il Covid.
È successo durante le scorse vacanze di Natale; ero tornata a pedalare solo da qualche settimana e per questo avevo programmato pochissime ore a casa, pianificando comunque di fare una seduta di allenamento al giorno, 25 compreso.
Quando mio padre ha notato che avevo gli occhi rossi e stanchi ho provato la febbre e scoperto di avere 37,5, che per me è già una temperatura elevata.
Il pensiero è volato subito, come quello di chiunque in un momento del genere, alla mia famiglia, ai miei genitori e ai miei nonni, che oggi non ci sono più.
La positività è emersa solo al secondo tampone, e il virus mi ha costretta a letto, sfiancata da sintomi pesanti, per oltre 40 giorni.
Svuotata completamente e incapace di riprendere l’attività anche dopo essermi negativizzata, ho passato altri due mesi in completa cattività.
Ho perso il gusto, bruciato tutte le energie, e anche se mi ripetevo continuamente “passerà”, come un mantra nella testa, in realtà non passava mai.


Per tutto questo, quando a febbraio ho potuto finalmente ricominciare la mia routine di pre-2020, senza più intoppi, ho scoperto di essere una persona diversa.
Mi ha reso tanto forte sta cosa qui.
Mi ha reso fortissima.
Prima non ero quella che sono ora, davvero.
A livello caratteriale adesso sento di poter superare, magari non qualunque cosa, ma tante cose le posso superare.
Dei problemi che prima mi sembravano grandi, ad oggi li potrei vedere davvero minimi e minuscoli.
La paura c’è, esiste ancora.
Ma quando stai bene e il tuo corpo risponde come vorresti la paura si trasforma in voglia di spingere, nel desiderio di fare una ripetuta in più, di andare oltre per recuperare il tempo perso.

 

 

Oggi, tutto ha un senso, e ripenso a quando da piccola arrivavo gattonando alla bicicletta senza rotelle e poi mi mettevo a pedalare perfettamente anche se non sapevo ancora camminare.
Oggi so che partecipare non è quello che conta, perché la bici piace a tanti, piace quasi a tutti, ma quando nevica, ci sono tre gradi e sei sui tornanti valtellinesi a 1800 metri di altitudine di amatori non ne incontri tanti.
Non ne incontri nessuno.
Oggi tutto è più curato, fin nei minimi dettagli.
E in ogni allenamento mi sento addosso, sulla pelle, una maggior voglia di fare, che non vive più niente in leggerezza.

Chiuderò il lavoro massacrante sulla forza, che sto facendo a Livigno alternando le salite e le sedute a secco in palestra, per portare il mio motore al massimo della sua potenza. Poi mancherà soltanto l’ultimo step, l’esplosività pura, quella delle pedalate a testa bassa, che saranno l’ultimo passo di avvicinamento a quella cosa grande che ci sarà nel Luglio di quest’anno.

Dopo tutto quello che ho passato, niente riuscirà a togliermi l’emozione di entrare in un Villaggio Olimpico, ma preferisco restare scaramantica fino in fondo, e dirlo ancora sottovoce.
Come si chiuderà questo capitolo lo racconterò al mio ritorno.
Nel frattempo, inforco la mia bicicletta e mi metto in sella.
Una salita.
Un’altra ancora.

LETIZIA PATERNOSTER / CONTRIBUTOR