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Passo Cassana - Mattia Longa

Scritto da The Owl Post x Livigno | 07 luglio 2022

 



“Ma lo sai che sei un gran bel rompi-maroni?”

Probabilmente è questa la frase che mi sono sentito ripetere più spesso fin da quando ero bambino. E anche ora, che bambino non lo sono più, il mio allenatore non manca di farmelo sapere, una volta ogni tanto.

Sono un curioso.

Uno di quelli che devono infilare le dita, e poi il naso, negli angoli nascosti delle cose, per capire come funzionano, come sono state costruite e che vantaggio posso averne per me.

Significa essere preciso e meticoloso, pretendere di sapere esattamente cosa ci sia nella mia borraccia, cosa nel mio rifornimento, che piani hanno i tecnici per il mio allenamento, quale sia l’ultimo telaio prodotto, quanti chili pesa e come cambia la mia postura in relazione ad esso.

Può significare anche sbattere contro gli spigoli della testardaggine, specie da piccolo, come quando in ferramenta con papà non mi feci certo bastare la descrizione teorica della “trappola per topi” e dovetti a tutti i costi toccarla per benino. 

Metodo empirico, finendo poi incastrato come un ratto.

Forse per questo, guardando indietro, la prima immagine che mi viene in mente è un ricordo piuttosto recente, quello del mio matrimonio. 

È stata un’emozione nuova, diversa da qualunque cosa avessi mai vissuto prima, e che in tanti anni di scuola e sport non avevo mai incrociato sul mio cammino.

Che fosse un esame, un’interrogazione a sorpresa oppure una gara che aspettavo da tempo, ho sempre avuto la sensazione del controllo, l’illusione di essere pienamente consapevole di quel che stavo per affrontare, e delle sue conseguenze. Nel giorno delle nozze invece no, perché il tutto aveva dei contorni molto più sfumati e, allo stesso tempo, assoluti. 

Perfetto o disastroso, senza via di mezzo: sentivo di non poter sbagliare nulla pur sapendo perfettamente che, a differenza di una gara di mountain bike, a fine serata non ci sarebbero stati né vincitori né vinti, ma soltanto noi due. 

Il solo momento della mia esistenza in cui non ho avuto il controllo di nulla e mi andava bene comunque.

Dico “il solo momento”, perché il bimbo rompi-maroni che ero non si sarebbe mai fatto prendere alla sprovvista da niente e da nessuno, soprattutto sugli argomenti più importanti in assoluto, vedi lo sport.

In casa, il padrone indiscusso era lo sci di fondo, con il papà che stra sgambede, marcelonghe e simili, nel corso della sua vita, ha fatto più di cento gare, correndo ovunque nel Mondo, spinto soltanto da gambe d’acciaio e tanta passione. Una passione tramandata d’ufficio a mia sorella Marianna, che sugli sci ha cominciato ad andar veloce già da piccina, al punto di arrivare poi fino alle Olimpiadi. 

Con queste premesse, in famiglia, non potevano che provare ad affibbiarne un paio pure a me, nella speranza che, se non proprio forte come la sorella maggiore, quantomeno mi mettessi un poco in forma, visto che in quegli anni ci mettevi di meno a saltarmi che a girarmi intorno.

Niente da fare: non faceva per me.

Non mi sentivo stimolato, non mi divertiva, e della fatica non avevo ancora scoperto il piacere.

Meglio darmi al calcio allora, o magari allo snow, iniziando così un pellegrinaggio laico tra le tante discipline che Livigno può offrire ad un bambino, in attesa della scintilla giusta. E il caso ha voluto che arrivasse mentre mi trovavo per davvero in pellegrinaggio. Uno di quelli assolutamente veri e per nulla laici.

2000, anno del temutissimo millenium bug e, soprattutto, del Giubileo.

Per festeggiare l’Anno Santo mio padre organizzò un lungo giro a tappe con un gruppetto di amici: da casa fino a Roma in bicicletta, per arrivare alle porte della Città Eterna giusto in tempo per le celebrazioni.

Io, che all’epoca ero soltanto un ragazzo, mi limitai ad aggregarmi ai pellegrini esclusivamente per le ultime tre tappe. 

E quelle bastarono a farmi innamorare perdutamente delle due ruote.

C’era un qualcosa di poetico nell’essere “uno”, in mezzo a tanti con la stessa idea.

Qualcuno aveva soltanto voglia di arrivare, spossato da centinaia di chilometri in sella. Qualcun altro ne approfittava per guardare l’Italia con occhi da turista. Altri ancora invece facevano scorrere i fili del proprio percorso interiore paralleli a quelli della strada che avevano sotto i piedi, dando risalto alla dimensione spirituale del viaggio intrapreso.

Uno, nessuno e centomila: tutti con il proprio spazio, sacro e inviolabile, pur nel mentre di un’esperienza collettiva, in cui la natura era il comun denominatore di tutti.

Una sensazione che non ho più smesso di inseguire.

 

Né figlio, né padre.

Né marito, né amico: quello che mi piace della mountain bike è proprio l’essere solo. Pienamente me stesso, pur non dovendo essere nessuno per davvero.

Io, la bici, le strade sterrate e la fatica, a braccetto in una natura da quadro, del tutto incurante dei nostri tempi e del nostro passaggio.

A volte parto prima dell’alba e pedalo per ore, interrompendo il rumore del respiro soltanto per non spaventare gli animali selvatici che ho sorpreso in un angolo nascosto del bosco.

Momenti che non val neppure la pena di fotografare, che altro non potresti che fargli un danno.

Anche ora, che dimagrito sono dimagrito, e che lo sport è diventato il mio mestiere, è l’equazione più semplice in assoluto a raccontare al meglio la passione che sento.

Gare, viaggi, pettorali e allenamenti: niente potrà mai pareggiare quel che provo quando arrivo in cima al passo Cassana, per ammirare il lago di Livigno dall’altro e per guardare in faccia il Bernina e il Cevedale.

Gli ultimi due chilometri e mezzo prima della vetta non sono per tutti, non senza una bici elettrica almeno. Settecento metri di dislivello: un tratto breve sulla carta, ma che l’asprezza della montagna rende quasi inaccessibile, come il rifugio di un’aquila.

Dico sempre, scherzando, che quando morirò possono cremarmi e lasciare le ceneri lassù, e andrà bene così.

 

Vedere che i miei angoli di paradiso stanno diventando patrimonio di tutti è una cosa che mi riempie il cuore. Marianna ripete spesso che le sarebbe piaciuto molto essere in attività oggi, perché con tutti i campioni dello sci di fondo che vengono a Livigno avrebbe sicuramente potuto raggiungere livelli ancora più alti e imparare tante cose.

Quel che per lei è soltanto un sogno passato, quasi un piccolo rammarico, per me invece è la fortuna più insperata che ci sia, per la quale devo ringraziare il progetto fatto da Livigno negli ultimi anni.

Pedalando sulle nostre strade, quando incrocio i grandi nomi del ciclismo, da Pogacar a Van Der Poel, che salgono da noi per allenarsi, mi accodo a loro, per osservarli da vicino e rubare qualche segreto del mestiere, che anche se lo è sport diverso mi sembra quasi di essere tornato ad essere il bambino curioso di tanti anni fa.

È una fierezza tutta nostra, che ci siamo meritati, e che si realizza anche in giro per il Mondo, quando gli avversari mi puntano l’indice in direzione del caschetto, proprio dove c’è la parola Livigno, e sorridono di gusto, raccontandomi di “quella volta che”.

Ed è una conquista per tutti, perché sull’esempio di chi allo sport da “del tu”, chiunque può scoprire qualcosa di nuovo, godendo di una fatica che ripulisce l'anima dagli affanni quotidiani, e che ha il potere di renderci persone migliori.

Magari noleggiando una bici elettrica e andando a vedere l’effetto che fa il passo Cassana oppure unendosi al pellegrinaggio di un gruppo di amici.

Calendario alla mano, il prossimo Giubileo è davvero dietro l’angolo.