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Qualcosa di bello | di Elia Viviani

Scritto da The Owl Post x Livigno | 09 luglio 2021

All’arrivo delle cose importanti, quelle che ti cambiano la vita, in fin dei conti, ci vuoi credere sempre, anche quando, dentro di te, una voce ripete: “non troppo, mi raccomando”.

Vuoi che siano scenari possibili, ma devi stare comunque attento a non illuderti. Perché la delusione di averci creduto e poi di non esserci riuscito rischierebbe di lasciarti svuotato dentro, che non è mai una cosa buona.

Di diventare il portabandiera azzurro alle Olimpiadi di Tokyo io, in cuor mio, ci ho sperato fin dal principio, pur facendo finta di non dargli troppo peso.
È un meccanismo di protezione, per me e per tutti gli altri, che hanno sognato al mio fianco tenendo i piedi ben
piantati per terra.

Neppure i miei genitori sapevano che c’era questa possibilità, e tutto il carico di aspettative ci ha pensato Elena a sorreggerlo insieme a me.

Quello che è successo dopo è stato veloce e anche molto strano.


Fino all’ultimo istante avevo deciso di ignorare le chiacchiere giornalistiche, restando concentrato sul presente, che nel mio caso significava il Giro d’Italia.
Tappa dopo tappa, in un’edizione che volevo a tutti i costi portare a termine, anche se ci stavamo avvicinando ormai alle
montagne più dure, non esattamente il mio punto forte. Ma nel momento esatto in cui mi hanno detto ufficialmente che avrei portato il tricolore alle Olimpiadi, le salite che avevo davanti si sono spianate e sono diventate le più facili della mia vita.

Ho concluso la tappa del giorno con una leggerezza mai sentita prima, sospinto e sorretto dalla bellezza di un attimo che resterà, e accompagnato dall’abbraccio della gente, che celebrava con me la notizia agli angoli della strada.
Un’emozione del genere, all’inizio, non riesci neppure a realizzarla appieno.

Poi iniziano ad arrivare a congratularsi i compagni di squadra, poi quelli di nazionale, poi gli atleti stranieri, soprattutto quelli che vengono da Paesi in cui l’attaccamento alla bandiera è forte, poi i giornalisti. E tutto diventa un susseguirsi di pacche e di sorrisi, di strette di mano e di complimenti, che poco alla volta, uno per uno, ti aiutano a capire un po’ di più del ruolo che ti è stato affidato.

Finché non inizia a fermarti anche la gente comune, quella non appassionata di sport, ma che durante le Olimpiadi guarderà tutti gli azzurri in gara con un coinvolgimento emotivo diverso dal solito, totale, perché quello è il momento di partecipare.

Ecco: quando ho cominciato ad essere fermato anche da tutti quelli che con il ciclismo non hanno nulla a che fare, ho sentito addosso la grandezza del mio compito, e il mosaico delle persone che si rifletteranno in quel gesto, si è completato nella mia testa e nel mio cuore.


Non basterà più che io sia soltanto un atleta.
E
non basterà neppure più che io sia un atleta forte, o un atleta vincente.
Dovrò essere un
atleta guida.
Un punto di riferimento per gli altri, prima nei
modi che nei risultati, perché voglio che tutti i ragazzi e le ragazze che sfileranno dietro a me e a Jessica, sappiano di poter contare sul nostro esempio.
Un esempio che si costruisce
prima di arrivare a Tokyo, e che si realizza giorno dopo giorno, nel lavoro, della dedizione e soprattutto in tutto quello che faccio quando sono lontano dalla pista e lontano dalle due ruote.
Ho portato la mia
personalissima bandiera tricolore fin dal primo giorno in cui mi sono vestito d’azzurro, tanti anni fa, ma da quando mi hanno scelto per portare anche quella di tutti, a Tokyo, il Mondo ha iniziato chiaramente a vedermela addosso, e adesso ho molti milioni di motivi in più per dimostrare di meritarmela.

Non è facile immaginare che cosa vorrà dire vivere il momento. Entrare nello stadio.
Sentire il boato.
Aprire il nostro corteo.

Ho provato a farmelo spiegare da chi ne ha avuto l’onore prima di me, che mi ha preparato ad un miscuglio di emozioni contrastanti, ricordandomi che quello della bandiera è un vero e proprio viaggio. Un viaggio che partirà dalle mani del Presidente Mattarella carico di promesse, e che in quelle stesse mani dovrà ritornare, con il valore delle promesse mantenute o con il peso delle promesse infrante, ma senza mai perdere la propria identità lungo la via.

Sono emozionato e farò del mio meglio per esserne all’altezza.


Il primo passo per farlo è mettermi nelle condizioni migliori per provare a replicare l’incredibile oro di Rio 2016. Quella resta la vittoria più importante della mia carriera ed è stata il culmine di un percorso perfetto.
Quattro anni prima, a Londra 2012, la medaglia olimpica
dell’Omnium mi era sfuggita proprio all’ultima prova cronometrica, quella del chilometro, lasciandomi dentro un profondo senso di incompiuto.
Per questo, avevo vissuto
l’avvicinamento ai Giochi brasiliani con la cattiveria agonistica di chi non vuole lasciar nulla al caso, costruendo una forma perfetta sulla cura del più piccolo dettaglio.

La stagione olimpica è sempre molto diversa dalle altre.

I programmi cambiano velocemente. La cosa più difficile in assoluto è avere la capacità di tirare una riga appena finiscono gli appuntamenti su strada, e resettare tutto, per dedicare le settimane che restano a colmare il gap con gli altri pistard in tempo per la cerimonia d’apertura.

Nel 2016 avevo abbandonato il Giro, tradizionalmente il mio ultimo appuntamento su strada prima di dedicarmi alla pista, all’ottava tappa, ottenendo così dei tempi un po’ più lunghi per mettere a regime le mie gambe da indoor.
Sono giusto
un paio di mesi, non di più, nei quali spingere al massimo per mettere in corpo la forza necessaria a giocartela contro i migliori.

Vuol dire fare avanti-indietro tra Montichiari e Livigno, un posto che è quasi una seconda casa, per alternare i benefici dell’altura agli allenamenti più tecnici. Vuol dire lavorare in palestra riempiendo tutti i giorni i muscoli di acido lattico. Vuol dire accettare di dedicare tutto te stesso, fisicamente e mentalmente, all’inseguimento di qualcosa di grande, senza pensare a quel che verrà dopo.

È un atto di fede.


Ma la cosa più stupefacente delle Olimpiadi di Rio è che mi ricordo tutto, anche il più piccolo particolare.
Ero stato il
primo tra i pistard ad arrivare al Villaggio Olimpico, dodici giorni prima dell’inizio delle nostre gare. Condividevo un appartamento da sei con gli stradisti, e tra le quattro mura che ci ospitavano, ognuno raccontava dei propri desideri e delle proprie aspirazioni. Era stato quasi come tornare bambini, tutti insieme di fronte a qualcosa di enorme, di fronte all’occasione della vita.

Un’occasione che poi, nel mio caso, è stata anche sfruttata al meglio.
Anche della due giorni di gare ho una
memoria perfetta, di ogni singolo giro.
Cosa ho
provato, cosa ho pensato, quali dubbi ho avuto.
Per esempio, ricordo di essermi ritrovato spaesato quando, al termine delle prime tre prove, e con un
argento virtuale in tasca, venni travolto dalle interviste e dalle richieste, mentre invece la sola cosa che avrei voluto fare era tornare in albergo a recuperare le forze per la seconda giornata di gare.
In Brasile c’erano anche i miei
genitori, che erano al loro primo viaggio transoceanico. La loro presenza ha sempre un effetto calmante, per me, perché sanno farmi sentire apprezzato e amato a prescindere da tutto, togliendo chili di pressione dalle mie spalle stanche.
La sera tra i due giorni di competizione la passai con loro, in una cena in cui parlammo di tutto
tranne che di ciclismo, e quella leggerezza me la ritrovai poi l’indomani, in pista.

Il resto, è storia, con la caduta nell’ultimo evento e la feroce risalita finale, coronata dalle tre volate consecutive vinte, che mi hanno permesso di vivere gli ultimi giri con la medaglia d’oro già in tasca.

Momenti unici, che mi hanno dato il tempo di capire e assaporare il successo quando ancora si stava realizzando sotto di me.

Quel trionfo ha dato il là ad un percorso importante per tutto il nostro movimento, che ha saputo costruire gruppi forti, sia nel maschile che nel femminile, al punto che oggi partiamo per Tokyo con l’ambizione di medaglia in ognuna delle sei prove previste ai Giochi.

Oggi, come nel 2016, sono tornato a Livigno, per riprendere il filo con le sensazioni di allora, e per preparare l’assalto olimpico coccolato da montagne amiche. Anche la testa vuole la sua parte e qui tutto è devoto agli atleti, come un piccolo paradiso in terra. Alterno i lunghi all’aperto per sciogliere la fatica e godermi le salite, ai massacranti lavori in palestra, per arrivare pronto alla partenza verso oriente.


L’atleta che è in me ci arriverà preparato, dopo un percorso di avvicinamento che ricalca il più possibile quello dell’edizione precedente, anche se quest’anno il Giro l'ho portato a termine per intero.

E dal viaggio in Giappone, io ho qualcosa di grande da chiedere, perché mi aspetta un compito importante, che capita una volta nella vita, e in questo caso, davvero, non è un modo di dire.
Dall’altura al velodromo, dalla strada alla pista, dal sogno lontano all’obiettivo più prossimo.

Sempre con Elena al mio fianco.
Sempre con la mia famiglia vicino.
E con il solito bruciante desiderio di vincere.
Rispetto al passato, però, questa volta in valigia metterò anche qualcosa di più.
Qualcosa che mi è stato dato in prestito, e allo stesso tempo mi appartiene. Qualcosa di mio, che è anche di tutti.
Qualcosa di bello, di cui prendermi cura.

ELIA VIVIANI / CONTRIBUTOR