Lì da sempre - di Tobia Silvestri
Lì da sempre - di Tobia Silvestri
Sport 21/01/2022
La rivoluzione delle Olimpiadi parte sempre dal basso.
Parte dalla terra e cresce verso l’alto, come un fratellino piccolo che guardi diventare grande un giorno alla volta. Nel posto in cui mi trovo ora, ai confini più estremi della Cina, e a due passi dalla Mongolia, fino a qualche anno fa non c’era nulla.
Niente strutture.
Niente palazzi.
Niente impianti.
Niente.
Solo il gelo, la montagna e una piccola comunità locale, che usava i muli per salire e scendere dai sentieri e che aveva la corrente soltanto fino alle sette di sera, prima che qualcuno, da qualche parte, spegnesse i contatori.
Poi, all’improvviso, arrivano i Cinque Cerchi, che sono ancora lontani, ma che sono diretti proprio qui, e dal nulla, come i funghi nel sottobosco, emerge il domani. Un resort nuovo di zecca diventa la copertina di un Mondo nuovo, che prima non c’era, e che trasforma la storia passata in quella futura.
Dagli asini delle nevi ai gatti delle nevi: animali di metallo dal cuore di ingranaggio, grandi quanto una casa, che danno al pendio la forma che hai scelto di immaginare, dentro alla quale ci sarà sempre e comunque anche un piccolo riassunto della tua vita.
I miei non mi hanno mai obbligato a fare niente.
O meglio: mia mamma ci avrebbe anche provato, ma non ci è mai davvero riuscita. Sci di fondo, telemark, snowboard: qualsiasi cosa Livigno proponesse, io la facevo, almeno fino al giorno in cui non mi stufavo di farla, e allora piantavo lì.
Senza rimorsi e senza sensi di colpa.
Anche quando ho deciso di lasciare la mia prima vera passione non ho sofferto più di tanto, anche perché, quando l’ho spogliata del risultato, ho scoperto che era ancora più bella. In una società fatta di regole, il freestyle è l’eccezione, dove più ne rompi e più sei forte, più sei forte e più ne rompi.
Mi è sempre piaciuto fare i salti, lanciandomi a testa bassa in direzione della valle, con gli sci rivolti verso al sole, e il sangue che ti arriva sulle guance. Non è mai stato un lavoro, né ho mai ambito che lo diventasse davvero. E quando mi sono accorto che in gara finivo dietro a ragazzini molto più giovani di me, che già da piccoli venivano cresciuti come dei gran professionisti, con palestra, fisioterapia e tutto il resto, ho deciso di smettere, quasi nauseato dalla pesantezza della competizione.
Non era quella la mia montagna. Non era quello il mio modo.
Alla montagna, io, ho sempre tenuto la mano, come fa mio padre, per provare a vestirla del suo abito migliore. Fin da quando lo sport era ancora un pezzo di tutte le giornate, il mio posto preferito era il gatto delle nevi, proprio dentro, nell’abitacolo, in quello spazio stretto, pieno di manopole e di pulsanti, dove ho fatto la mia tana, e dove potrei anche dormire mentre fuori è la tempesta.
Un giorno, durante un evento che si stava svolgendo nello snowpark di casa, mentre io e papà stavamo preparando un salto, il capo della ditta che gestiva i lavori mi ha chiesto se volevo andare in Corea con lui, a preparare le strutture per le Olimpiadi di Pyeongchang. Non saprei dire cosa avesse notato in me, se non la passione che avevo negli occhi mentre, armato di badile, rifinivo con cura i denti dei salti. Perché anche se i macchinari spostano quintali di terra e di neve, il tocco finale lo da sempre la mano dell’uomo.
La cosa che ricordo più di tutto è la mail che ho ricevuto poco prima di partire, in cui mi chiedevano di imbarcare per l’oriente anche gli sci, che oltre a costruirli, quei salti, avrei anche dovuto provarli.
Ero gasato e pensieroso nella stessa misura, anche se poi, a ripensarci ora, il contenuto di quella mail era l’ultima cosa di cui mi sarei dovuto preoccupare.
Quando costruisci i salti per una gara di freestyle, prima di concludere l’opera devi sempre fare un test, che si spera non diventi un crash test, e per realizzarlo ti limiti a completare una traccia larga 50 centimetri su cui far passare gli sci dell’apripista, lasciando tutto il resto ancora incompiuto.
Così mi sono ritrovato dall’altra parte del Mondo a provare per primo i salti che avrebbero assegnato le medaglie olimpiche. All’inizio da solo, poi davanti al direttore gara e infine anche davanti agli atleti, i migliori atleti del circuito, che mi chiedevano di testare per loro tutte le angolazioni e gli spigoli della struttura che avevo aiutato a tirar su.
Da quella prima esperienza ho preso tanto, e me lo sono portato dietro nei progetti di oggi, giunti ormai ad un passo dai Giochi di Pechino. Non mi chiederanno più di testare i salti, quello no, ma ho finalmente l’opportunità di portare le mie idee dentro il tracciato, aiutando la montagna a esprimere tutta la sua creatività.
Nel farlo, si parte sempre dalle sue inclinazioni, che non sono soltanto le pendenze, ma anche gli elementi del suo carattere e la natura del suo essere. La base di terra, poi, la modella, trascinandole addosso tanti di quei mila-metri-cubi da cambiarle completamente l’aspetto, in un processo che è frutto in egual maniera di calcolo e di sensibilità.
Matematica e orecchio: per dar vita ad una pista perfetta entrambe le cose devono lavorare insieme, quasi in coro, dando agli atleti la cornice perfetta per raccontare la propria storia. Esistono programmi in grado di definire il grado perfetto a cui impostare un salto e la relativa zona d’atterraggio, per evitare che una discrepanza nei numeri vada a spezzare le gambe degli sciatori.
Ma le equazioni sono vuote se non ci metti dentro il feeling, la sensazione personale.
Quando costruisci una pista o una struttura, che sia per una garetta con gli amici o per l’evento a Cinque Cerchi, lo senti se funziona. E io mi fido di quello. Metro dopo metro e curva dopo curva, ho come la sensazione che tutto si crei da solo.
Come se non esistessi, il tracciato fosse lì da sempre, e invece di costruirlo lo hai semplicemente scoperto, togliendo lo strato di neve che stava sopra la montagna intera.
La cosa che più di tutte in assoluto mi racconta se sto facendo le scelte giuste è il suono. La voce della montagna, che cambia a seconda degli angoli e a seconda del vento. I salti hanno un suono molto preciso, come ce l’ha anche la superficie della neve che si crepa e che si rompe sotto l’impatto degli sci.
Troppa compressione o troppo poca compressione lavora male sulla postura degli atleti e il ritorno al suolo sarà rumoroso, pesante.
C’è un’eleganza nascosta nel silenzio di una run perfetta, e più è delicato e impercettibile il rumore dello sciatore e più significa che la pista sta danzando con lui, e non combattendolo. Perché la pista non si deve domare, si deve accompagnare.
Discorso analogo anche nella fase di stacco, dove il suono è ancora una prova del nove, perché per descrivere una traiettoria giusta, devi sentire un sibilo continuo, che duri tutto il tempo del salto. Come il taglio netto che fai strappando un foglio di carta: deve confondersi con l’aria, e perdersi nei venti.
È un gioco di fantasia e programmazione, dove tutto, dai dossi alle paraboliche, dalle gobbe ai salti, deve essere sciabile nel maggior numero di modi possibile, lasciando che sia l’ispirazione degli atleti a scegliere il tratto del momento.
Non esiste soddisfazione più grande che vedere i grandi campioni lanciarsi sereni su un salto che hai costruito tu, con le tue mani, provando evoluzioni sempre più complesse passaggio dopo passaggio. Li guardi fare un salto mortale all’indietro, poi due, poi li vedi caricarsi l’uno con l’altro, spingendosi ad andare oltre. E mentre i tuoi occhi si riempiono di soddisfazione, nelle tue orecchie c’è sempre lo stesso identico suono delicato di una costruzione perfetta, protagonista invisibile del film che stanno recitando. È come una magia, e farne parte è semplicemente una figata.
Da Livigno alla Corea, dalla Corea a Pechino e, speriamo, da Pechino a casa, per i Giochi del 2026 che proprio sulle mie montagne ospiteranno le gare di freestyle e snowboard. Il pensiero di quel che potrebbe essere, e che sarà, è difficile da riassumere, perché comprende tante cose.
Sono felice, perché quello che faccio è nella linea evolutiva di quello che fa il papà, che ha iniziato creando i salti a mano, in compagnia di quelle stesse persone che oggi progettano i percorsi che assegnano il titolo olimpico.
Al grande appuntamento di casa arriverei non ancora trentenne, ma con alle spalle già due esperienze olimpiche, durante le quali sono passato da apripista inconsapevole a vero e proprio costruttore di idee.
Penso a tutte le persone di Livigno che come me hanno passione, voglia di lavorare e tantissimo talento, soprattutto tra i più giovani, e penso a come questa possa essere anche l’occasione per diventare protagonisti di qualcosa di importante, e portare le proprie competenze in giro per il mondo. Penso a quando mi addormentavo sul gatto delle nevi, sfinito dalla fatica e coccolato dalla vibrazione del motore. E a quanto sarebbe bello sentire il suono inconfondibile di un salto perfetto risuonare fino ai piedi della nostra valle.
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