Sfide - di Luca Moretti

Sfide - di Luca Moretti

Sport 22/12/2021

La sfida resta la sfida.

E questo non cambia mai, al cancelletto come dietro ad una scrivania. Quando sei ragazzo e hai le mani e i piedi immersi nei tuoi sogni, è difficile credere che tutto possa cambiare per colpa di un piccolo dettaglio. Quando te lo raccontano non riesci neppure a crederci, ma a volte funziona davvero così. Una parola in più, o in meno, detta dalla persona giusta. Uno skiman che dimentica qualcosa. Un dirigente che crede di vedere in te l’atteggiamento sbagliato. E nello spazio di un secondo la vita di qualcuno cambia.

 

Tornando indietro agli anni da sciatore, allora, forse mi morderei di più la lingua. Forse cercherei di concentrare tutte le energie soltanto sulle mie cose, per tirare fuori il meglio di quello che avevo dentro, senza lasciarmi neanche il dubbio più piccolo.

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Sono stato un atleta curioso e molto vivace, ed è giusto partire da lì.

Fin da piccolo non mi davo mai il tempo per annoiarmi, continuando a provare cose nuove ogni giorno, alla costante ricerca di neve e stimoli freschi. A dire il vero, sono stato anche una piccola canaglia, un bambino molto sgamato, in grado di trovare sempre un modo per ottenere quello su cui metteva gli occhi.

Facevo fatica in matematica?

Nessun problema, perché entro fine anno la maestra si sarebbe comunque ritrovata a darmi la piena sufficienza, senza capire come avessi fatto a girarci intorno per tutto il semestre.

I grandi manager di oggi lo chiamerebbero “problem solving”, oppure “pensiero creativo”, ma per me è qualcosa di più semplice, di immediato, che ho sempre sentito di avere dentro. Ricordo, per esempio, che quando c’erano le gare di sci, io e il bidello, che sapeva della mia passione, avevamo un accordo segreto. Lui veniva a bussare in classe, e mi faceva uscire con una scusa inventata all’ultimo minuto. Così, fianco a fianco, ci guardavamo la prima manche in santa pace, discutendo sui nostri campioni preferiti. Poi, al suono della campanella, correvo a perdifiato fino a casa, per non perdermi un singolo sciatore anche della seconda.

La furbizia è di certo un bel pregio da avere, ma crescendo capisci che ci sono materie in cui non può nulla neppure lei, e devi imparare ad affrontare le cose come sono. Così, l’unica cosa in cui non ho mai preso una singola scorciatoia è stata lo sci.

Anche perché nello sport, semplicemente, non esistono.

Dalle medie in avanti ho scoperto, con mia sorpresa, di essere un grande lavoratore. Vedevo il mio fisico cambiare, anno dopo anno, diventare più forte e più muscoloso, alimentando continuamente il mio desiderio di arrivare in alto.

Poco alla volta, il lavoro è diventato la mia coperta di Linus.

La fatica era il mio interruttore, e mi serviva farne tanta per sentirmi veramente pronto a qualcosa. Più tardi avrei compreso che nello sci non c’è un modo per sapere con certezza di essere pronti, perché quella garanzia non la si proprio ottenere e soltanto dopo aver passato il traguardo, a fondovalle, puoi dare una risposta alle domande che ti sei fatto in cima alla discesa.

Io, se dovevo fare 15 serie di squat, ne facevo 16, anche se giunto al momento dell’ultima ero pieno di acido lattico e le ripetizioni non venivano bene quanto avrebbero dovuto.

Se avevo in programma 100 prove della pista, io le facevo tutte, dalla prima all’ultima, perché credevo che così, la centounesima, quella che contava, sarebbe stata “matematicamente” perfetta.

Peccato che non sia così.

Non è così perché lo sport non è un’equazione, anche se i calcoli contano, e perché la testa e la strategia sono parte integrante del processo di crescita, in ogni disciplina e in ogni settore lavorativo.

Mi ci è voluto il periodo più duro della mia vita, quello in cui stavo perdendo papà, per capire che meno ore a disposizione per allenarsi non significa affatto fare meno cose, ma significa farle meglio, per arrivare con la volontà e le idee dove le gambe non hanno più il tempo di arrivare.

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La parte più difficile, forse, è proprio questa.

Riuscire a mantenere il giusto equilibrio tra l’essere aggressivi e intraprendenti, e il comprendere l’importanza del contorno, che è sempre più grande di te e della tua discesa.

All’epoca del mio esordio in Coppa del Mondo giravo con lo skipass attaccato al petto, e al posto della mia foto ci avevo messo quella di Kjetil André Aamodt, che era il mio idolo di gioventù. Quando però succede che te lo trovi a fianco per davvero, e che entrambi state per scendere dalla stessa identica pista, combattendovi i punti in palio, devi essere sia cattivo che guardingo, perché vuoi fargli vedere quel che vali, ma non puoi fare il passo più lungo della gamba.

Il paradosso dello sport, quello che lo rende sfuggevole e bellissimo, è che la maturità ti porta maggiore consapevolezza di tutto ciò che circonda la gara, ma è proprio la consapevolezza a frenare la sana incoscienza che serve per andare veramente forte.

È un gioco di vasi comunicanti, in cui tu sei lo scienziato pazzo con in mano le provette della tua carriera.

Così, il bambino che saltava dai tetti con gli sci, è diventato un adulto che continuava a saltare dai tetti con gli sci, ma che prima di farlo voleva sapere quanto era alto, qual era la pendenza, quanto fresca era la neve, e quanto sarebbe sprofondato nell’atterraggio.

In nazionale, un allenatore aveva cominciato a chiamarmi “il manager”, per la mia abitudine a voler sapere sempre tutto. A differenza degli altri, che partivano con la valigia e lo zaino, io avevo sempre sottomano un trolley, perché più che per gareggiare, sembravo uno che viaggiava per scoprire altro.

Di ogni località che visitavo studiavo anche il più piccolo dettaglio, per soddisfare la mia curiosità personale: quanto costa lo skipass, quanti alberghi ci sono, quanti posti letto, il perché delle balaustre, come era stata studiata la viabilità per l’accesso al parterre, come era strutturato l’evento, come avevano disegnato il logo.

Tutto, per me, diventava una domanda.

E nelle ore passate a cercare le risposte ho capito che cosa avrei voluto fare da grande.

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Mi sono ritirato di colpo, dalla sera alla mattina, più per rabbia che per scelta. E un po’ anche perché non ho mai amato le mezze misure.

Nel momento esatto in cui ho pensato che non mi stessero dando l’occasione che meritavo, come la meritavo, ho preso e sono partito, mettendo più chilometri possibili tra me e l’Italia. Ho tagliato la corda.

Oggi, che vedo tutto con occhi diversi, non sono più tanto certo di aver subito un torto, ma per comprendere a fondo le sfumature di grigio serve consumare tante tele e tanti pennelli.

Prima sono andato a lavorare in Canada, a Whistler Mountain, che di lì a poco avrebbe ospitato i Giochi del 2010; poi il caso a voluto che venissi richiamato dalla nazionale azzurra, facendo un percorso tecnico al fianco dei miei vecchi compagni di squadra, proprio in ottica delle Olimpiadi di Vancouver.

Così ho avuto modo di guardare i due lati del percorso di avvicinamento, vivendo dal di dentro sia l’aspetto organizzativo che quello sportivo.

Perché tutte le domande che mi facevo quando ancora sciavo sono confluite in una sola grande risposta, che mi ha fatto capire subito, appena ho smesso con il professionismo, quale fosse il mio grande scopo finale.

Ho messo insieme tutto quello che avevo raccolto e sono tornato a casa, all’APT, con l’idea di mettere tutto al servizio della mia terra.

Lo sport e la magia del professionismo.

Il desiderio di eccellere e la voglia di imparare cose nuove.

Il bisogno di investire e l’obbligo di non dimenticare le proprie radici.

La sfida resta la sfida, anche da dietro la scrivania, e come in quel giorno indimenticabile, in cui girando con la foto di Aamodt sullo skipass l’ho incontrato per davvero, penso che il segreto stia nel trovare il giusto equilibrio tra la cattiveria agonistica e la logica.

Le sfide di oggi sono quelle di tutta Livigno e di tutta la Valle, che si preparano a vivere insieme un quadriennio che resterà nei libri di storia. E se la grandezza dei Giochi è quasi una grandezza dovuta, che si porterà dietro il suo peso a prescindere da quel che accadrà in pista, la cosa più importante che possiamo fare noi è decidere che cosa resterà dopo, quando la fiaccola si sarà spenta.

Perché le Olimpiadi sono l’occasione di elevare tutta la Valtellina, e dobbiamo farlo senza mai perdere la nostra identità e il nostro carattere, che è spigoloso, ma anche pieno di grandi qualità. Dobbiamo accoglierle senza rovinare il nostro rapporto con la natura e con le tradizioni, consapevoli che quello che lasceremo a chi verrà dopo di noi, oltre ad un sacco di bei ricordi, deve anche durare nel tempo, e definire per le generazioni future l’eredità culturale e storica della nostra valle.

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