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Ancora oggi - Loris Leoni

Pubblicato da The Owl Post x Livigno il 01 aprile 2022


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Sono sempre stato il piccolo di casa, l’ultimo della cucciolata.
Terzogenito in netta minoranza, venuto al mondo sette e dieci anni dopo le mie due sorelle. E di questo essere in fondo alla fila ho fatto uno stile di vita.
Fin da bambino.
Randagio nel midollo, disperato quanto basta, curioso sempre: il mio gioco preferito era restare all’area aperta, sgusciando fuori casa appena finiva la scuola e tornando poi al tramonto, coperto di neve, di terra o di chissà cos’altro avevo incontrato sul mio cammino.
Erano gli anni ‘80, non c’erano ancora i cellulari, e quando un figlio usciva per andare alla conquista del paese, mamme e papà non potevano far altro che aspettare, sperando rientrasse tutto intero e senza aver fatto troppi danni in giro.
Mi piaceva fare i giochi con il legno, costruendo rifugi di fortuna nei campi e nei boschi. Mi piaceva portare in esplorazione gli amici forestieri, quelli che salivano d’estate e restavano qui per tutta la stagione. Mi piaceva andare a guardare i cantieri, per rompere le balle agli operai e farmi raccontare come si costruiscono le cose più diverse.


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In quegli anni, Livigno era diversa da com’è oggi.
Ma non lo erano i livignaschi.
L’anima del paese è sempre rimasta fedele a se stessa, alle sue montagne e alla neve, che è un pezzo di noi e che andiamo a ricercare sempre, persino d’estate, come se non potessimo fare a meno di lei.
Ricordo che appena sveglio correvo a guardare i pullman che partivano all’alba per andare a Diavolezza a sciare, sul ghiacciaio, e sognavo di salirci anch’io per vedere com’è la neve di luglio.
E invece mi toccava aspettare l’inverno oppure, al massimo, ingannare il tempo con lo sci d’erba.
Io avevo iniziato con l’hockey su ghiaccio, che era bellissimo soprattutto per il gruppo che eravamo riusciti a creare. Adulti e meno adulti, talentuosi e meno talentuosi: quella squadra mi faceva sentire parte di qualcosa di importante e di più grande di me. È uno sport dinamico, completo, e anche identitario, perché ti obbliga a muoverti sempre d’insieme, come un’orchestra, come la banda del comune, dove ognuno mette il suo e lo fa a modo proprio.
Poi, la società si sciolse ed io passai ad altro, ma sono contento di sapere che qualcuno sta riportando la disciplina in valle, perché in un posto come questo, non può davvero mancare.


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Tolti i pattini, ho messo gli sci.
Anche se poi, in realtà, con gli sci ci sono nato e cresciuto, più o meno come tutti.
Ero “fuori” già di mio, e per non farmi mancare nulla, anche sulla neve riuscivo sempre a vincere il titolo di più spericolato della compagnia. Se una cosa non si poteva fare, era certo che sarei stato il primo a infrangere il comandamento, fiero della mia testa dura.
Non potevi saltar giù dalla seggiovia mentre era in movimento, e allora io, puntualmente, lo facevo. Ogni anno mi ritiravano la tessera almeno tre volte, salvo poi farsi impietosire dal mio sguardo da cane bastonato e restituirmela, dietro la promessa che “no, davvero, questa volta non lo faccio più.”
E anche se ci sono voluti un paio di decenni, alla fine, ho mantenuto la mia parola e sono diventato ligio a tutte le regole, per quanto gli impiantisti della mia generazione non perdano mai occasione di ricordarmi le marachelle passate.


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Crescendo a Livigno, e con un carattere così, non stupisce che la mia passione fosse il freestyle, e che lo sia ancora, visto che ormai so per certo che io e lui saremo fedeli compagni fino alla fine dei miei giorni.
Guardavo i ragazzi più grandi e provavo ad imitarli, tra evoluzioni e salti mortali.
Da bambino la paura c’è e non c’è, perché si mimetizza perfettamente sotto il mantello dell’incoscienza infantile, quella che pende dalle labbra dell’adrenalina.
Poi picchi il culo una volta e un pochino ci ripensi.
Prendevi due botte, passavi dieci giorni lontano dagli sci, come la penitenza che ti assegnava il parroco quando andavi a confessare qualcosa di brutto, e tornavi in pista con quel minimo di rispetto in più.
Rispetto che poi, prontamente, evaporava al primo salto.
Freestyle, per me, ha sempre voluto dire gobbe, moguls, la disciplina che mi ha stregato l’occhio e il cuore in meno di cinque minuti. C’è un qualcosa di strano, di contro intuitivo, qualcosa degno di un bastian contrario come me, nel creare artificialmente degli ostacoli per separare la cima dal fondo valle, e rendere la discesa più complicata e spigolosa.


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Ci penso ancora oggi, che la schiena non è proprio quella di un tempo, al perché delle gobbe, e forse una risposta vera non c’è. O meglio, una risposta c’è, ma è la risposta ad una domanda diversa.
Sì, lo rifarei.
Ripartirei da capo e mi dedicherei ancora al moguls.
Per quanto curioso possa essere, quella è la cosa più bella che c’è, per cui la rifarei da capo. Non alla stessa maniera magari, ma la rifarei. Una sfida mente e corpo che ha definito tutta la mia vita.
Per addomesticare le gobbe devi essere un atleta sempre al top, elastico e forte.
Devi combattere per la tua centralità, che va assecondata e non inseguita, perché altrimenti, sei sempre un accordo indietro rispetto al suono della pista.
Ce ne sono di lunghe e di corte: è uno sport aritmico e asimmetrico, e la velocità a cui le affronti è sempre troppo sostenuta per poterle valutare una ad una. L’occhio non ce la fa, resta fisso all’orizzonte e sono i piedi e lo sci a valutare in tempo reale la consistenza e la forma del mucchio di neve che sta sotto di te.
È una danza con la pista, una carezza, un dialogo, che sfocia all’improvviso in uno slancio verso il cielo. È come un primo appuntamento, che dopo uno zig zag di chiacchiere e di sguardi, finisce con i fuochi d’artificio, sotto le lenzuola.


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Prima di tutto, sono stato un atleta.
Un po’ di Coppa del Mondo e un bel po’ di Coppa Europa, dove finivo spesso tra i primi 10, anche se intorno alla disciplina non c’era poi chissà quale interesse da parte delle istituzioni.
Al cancelletto, ad ogni gara, eravamo in più di 100, e io facevo del mio meglio per rubare i segreti dei più bravi e migliorare il più possibile, anche perché spesso i soldi per viaggiare uscivano direttamente dalle mie tasche ed era il caso di non sprecare neppure una lira. Poi, proprio nel mio momento migliore, è arrivata la leva obbligatoria e, tra un gennaio e l’altro, ho perso quasi due anni di attività.
La testa è una bestia strana, e quando ho ripreso con le competizioni, nonostante il corpo non fosse diverso da quello di un paio di stagioni prima, faticavo ad entrare in una misera top 30.
“Ma se in allenamento voli!” era il classico commento dei miei allenatori, che faticavano a comprendere perché soffrissi così tanto la tensione quando arrivava il momento clou. Era un vero e proprio blocco, che non sono più riuscito a saltare, come se fosse un trampolino, e che è rimasto come me per tutta la carriera, anche quando, dopo una faticosa risalita, sono tornato a fare qualche apparizione in Coppa del Mondo.


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Le nostre erano ancora gobbe costruite a mano, sono forse state le ultime in assoluto a venir tirate su a forza di passaggi con gli sci e di badilate ben assestate. Ci volevano giorni per preparare la pista per una gara.
Si mettevano i paletti in fila indiana e poi, discesa dopo discesa, si sciavano come uno slalom qualunque, lasciando che gli spigoli e le lamine degli atleti scavassero i solchi che avrebbero generato le gobbe. Poi, con pazienza e olio di gomito, si rifinivano una ad una a colpi di pala. Non esattamente un’impresa facile.
Così, quando ho smesso di sciare, appassionato come sono, ho deciso di mettermi alla guida di un gatto delle nevi e di scervellarmi per trovare il modo più rapido per costruire un tracciato. Non che qualcuno mi abbia preso sul serio, all’inizio, ma con ingegno e fatica, ho affinato la tecnica, riducendo i tempi fino all’osso e completando le piste in un paio di giorni al massimo, che non è affatto male.
L’idea ha cominciato a stuzzicare chi lo faceva di mestiere e, quasi senza sapere come, mi sono ritrovato a preparare gobbe e atleti per le Olimpiadi di Torino 2006, l’ultima edizione dei Giochi di casa, prima della prossima. Dal Piemonte al resto del mondo, il passo è stato breve, e per qualche anno ancora ho costruito le mie piste e le mie moguls, in giro per tutto il circuito internazionale, anche in questi luoghi che sognavo da bambino, quelli con la neve d’estate.


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Oggi siamo qui, a pianificare con tutta la comunità il prossimo appuntamento a Cinque Cerchi, che vedrò nascere e fiorire in quegli stessi campi e boschi in cui giocavo da bambino.
Per me, questo nuovo inizio, è stato un ritorno al futuro: un viaggio nel tempo che mi ha ricordato, che anche se non lo facevo da un po’, la passione per questo sport unico e bellissimo è sempre stata lì, dentro le mie ossa.
Il sogno è quello di convincere qualche giovane atleta livignasco della bellezza delle gobbe, e accompagnarlo magari, insieme a tutto il paese, fino al cancelletto olimpico. E se questo non dovesse succedere, non importa, perché l’esperienza del singolo, per quanto magnifica, può comunque finire nel dimenticatoio della memoria, e ammuffire in soffitta.
Quel che resta, invece, è la cultura.
Una cultura che a vent’anni esatti da Torino dovrà essere in grado di sostenere il peso della storia e le aspettative delle prossime generazioni. Significa piste perfette. Significa organizzazione scintillante. Ma significa anche opportunità per il futuro.
Significa prendere il freestyle in ogni sua forma e trasformarlo nella quotidianità dei nostri impianti, immaginando spazi e piste dedicati alle sue discipline.
Significa costruire un futuro che si fonda sull’identità del nostro paese, e quando poi, vent’anni dopo ancora, le Olimpiadi torneranno qui, avremo solo l’imbarazzo della scelta, perché saranno tanti i talenti di casa per cui fare il tifo.

firma Loris Leoni

 

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