I Mottini e i cugini Beppin.
Achille Compagnoni e i quattro fratelli.
Il papà di Thoeni, Don Parenti e i Longa.
L’ingegner Pellentz e i Sertorelli.
Per scrivere una storia bisogna sempre cominciare col definirne i personaggi, che quando vuoi raccontarne una lunga cento anni i candidati sono tanti, e qualcuno finisce per forza fuori dalla cornice.
Qui non c’era niente.
All’inizio del secolo scorso, a Livigno, non c’era niente.
Ci vivevano soltanto mille e duecento anime, impegnate a far la lotta contro la montagna e i suoi spigoli, soprattutto in inverno. Le giornate erano regolate unicamente dalle volontà della natura e del tempo, e tutto ciò che all’uomo era concesso decidere, come i nomi delle strade, finiva col riflettere l’essenza spiccia e pratica di un’epoca dura. Via Ostaria, via dela Gesa, via dela Fontana.
A metà degli anni ‘20, dopo che l’esercito italiano aveva finalmente addomesticato il Foscagno e aperto il passo che ci avrebbe collegato al resto d’Italia, tutti o quasi gli uomini in forze del paese si riversarono in Svizzera, a St. Moritz, per preparare i Giochi Olimpici del 1928.
Il Waldhaus, il Grand Hotel, il Kulm: tutti i grandi alberghi destinati a cambiare il volto della città e a diventare un simbolo del potere della ricca aristocrazia locale, vennero tirati su da braccia livignasche, che mai avrebbero potuto immaginare il valore di quell’esperienza. Un valore che cento anni più tardi possiamo invece comprendere noi, giunti ormai ad un passo da Olimpia.
Comunque, nel letargo di quei decenni freddi, quelli che separarono le due Grandi Guerre, ci fu anche chi provò a svegliare la nostra popolazione, scuotendola dal sonno delle sue millenarie abitudini contadine. È il caso di Don Parenti, un magnifico scavezzacollo brianzolo prestato alla cristianità, che per quarant’anni diede calore alla valle, diventandone infine un personaggio storico.
Dopo aver brillantemente superato gli esami per diventare avvocato, il nostro ha sentito una chiamata divina, decidendo di bussare alla porta degli Ambrosiani per studiare teologia. Testa matta com’era, però, Parenti non s’incastrò granché con la rigida formalità dell’ordine meneghino, e finì con lo spostarsi a Como pur di completare il ciclo di studi e di farsi ordinare prete.
Così venne spedito a Trepalle, dove c’era ancora meno che a Livigno e dove non si vedeva lo straccio di un sacerdote da un’infinità di anni. La casa parrocchiale, scricchiolante e piena di spifferi, venne riaperta per lui e per la madre, che lo aveva accompagnato fino a quel confine estremo del Mondo conosciuto. Gocciolava dal soffitto e quando chiese se c’era un rubinetto in casa gli venne risposto che l’acqua la trovava giù al ruscello, ma di non preoccuparsi, che sarebbero andati i cittadini a prendergliela ogni volta che ne aveva bisogno, perché il livignasco può anche aver poco, ma in quel poco che ha ci mette l’anima.
Pensò poi in prima persona a come sfruttare al meglio l’energia di quello stesso ruscello e usare un generatore per illuminare la chiesa e la casa parrocchiale.
Don Parenti fece di necessità virtù e nonostante fosse solito dire che “a Trepalle per castigo mi han mandato, e per castigo ci rimango”, venne adottato dall’intera popolazione. O forse andò al contrario, e fu lui ad adottare la popolazione, poco importa, quel che è certo è che fu lui a portare qui un modo nuovo di pensare, e non era raro vederlo sfrecciare sugli sci, con la tonaca al vento, intento a portare i sacramenti nelle baite più sperdute.
Qualche inverno dopo, i reduci della seconda Guerra Mondiale, giovani ricoperti dalla cenere dei mortai, erano tornati dal conflitto con l’esigenza di vivere una vita nuova, più piena, nella speranza di scoprire che oltre alla miseria e al dolore, c’era altro per ognuno di loro. Alpini ed ex alpini iniziarono allora ad aprire strade e a battere piste, per dare un senso diverso allo scorrere del tempo, più umano e meno cupo.
Ancora non c’erano impianti di risalita, ma i Longa avevano un piccolo mezzo cingolato, che usavano per fare qualunque cosa e che ogni tanto, quando il lavoro era finito, riadattavano a gatto delle nevi, agganciando una lunga fune dove ci aggrappavamo per salire con gli sci.
Furono i tedeschi i primi a guardare il nostro paese con un occhio diverso. Anche qui, i dettagli della vicenda si perdono nella memoria di chi c’era e oggi non c’è più.
E io, per fortuna, c’ero e ci sono ancora.
In quegli anni, un gruppetto piuttosto nutrito di turisti, proveniente dalla città di Stoccarda, e facente riferimento al rispettabilissimo ingegner Pellentz, prese ogni anno ad occupare tutti gli alberghi di Livigno, trasferendosi qui per un mese, o giù di lì, serviti e riveriti in ogni possibile maniera. Erano: l’Hotel Livigno, l’Hotel Bernina e l’Hotel Alpina, che era stato costruito rimodernando la vecchia casa cantoniera.
Tutto via lettera, li prenotavano per intero, dando appuntamento ai propri albergatori.
Poi partivano dalla Germania.
Treno dopo treno, cambio dopo cambio, arrivavano a Zernez, per poi proseguire con l’autopostale di Santa Maria fino alla Drossa, proprio al confine svizzero, dove li aspettavano le nostre slitte, dopo un viaggio di più di cinque ore.
Una volta a Livigno, organizzavano gruppi da dieci persone, ognuno dei quali accompagnato da una guida. Sertorelli, Thöni, Peccedi, Cusini, Mottini: ogni giorno cambiavano gita, si saliva con le pelli di foca e si scendeva sulla neve vergine.
Io venivo spesso infilato nel mezzo, nel gruppo delle guide, per così dire, anche se ero soltanto un ragazzo mingherlino, e anche se i tedeschi dell’ingegnere, in fin dei conti, ne sapevano molto più di noi. Più o meno su ogni cosa.
Io e mio fratello Benedetto eravamo cresciuti condividendo un solo paio di sci, e visto che nessuno dei due avrebbe mai chiesto all’altro di rinunciare ad un pomeriggio sulla neve, ne usavamo una a testa, scendendo in equilibrio con i piedi in fila indiana.
Dividevo le mie giornate tra le attività di famiglia: all’alba facendo il pane, visto che avevamo un forno, e la sera servendo ai tavoli nell’albergo di famiglia. Nonostante il tempo libero fosse poco, fare sport mi piaceva e ogni volta che ne avevo l’occasione, mi buttavo sulle piste.
La mia famiglia però “portava l’artrosi”, come si diceva una volta, e già da ragazzo quest’eredità mi stava rovinando la vita. Ero ancora un adolescente quando mi obbligarono ad indossare un busto gessato e con le stecche, sotto alla divisa di lavoro. Ricordo che un giorno, seduto al tavolo del ristorante, c’era un signore di mezza età, che mi guardava con fare più attento del normale. Aspettò che si svuotasse la sala prima di chiedermi come mai, alla mia età, portassi già il busto.
Era un ortopedico della città, che aveva riconosciuto la mia postura rigida e che mi disse che avrei fatto meglio a non cascarci. “Non ti piangere addosso. Se cominci adesso col busto non te lo levi più. Buttalo via, e quando ti fa male la schiena tu esci al freddo e fai una bella corsa, poi sdraiati a terra e stringi i denti finché il male non passa, vedrai che avrai vita lunga.”
Così ho gettato il busto e ho cominciato a fare sport tutti i giorni, e anche se poi mi sono dovuto rifare entrambe le anche, alla fine ho sciato per oltre sessant’anni. Un regalo che devo unicamente a quell’uomo.
Livigno stava crescendo, l’eco della guerra era sempre più lontana, il Foscagno si iniziò ad aprire anche in inverno, e insieme ai turisti-pionieri iniziarono a comparire anche i primi impianti di risalita.
La Valtellina era talmente remota e distante che la ferrovia tra Sondrio e Tirano non era statale, che tanto alla Nazione non interessava, ma di proprietà di una società locale. Quando finalmente lo Stato rilevò la tratta, la Società Anonima per le Ferrovie dell’Alta Valtellina, o FAV, investì su seggiovie e risalite, sia a Livigno che a Santa Caterina, dando un’impronta al futuro che ci aspettava. La sola cosa che mancasse erano i maestri di sci, che scarseggiavano in tutta la valle.
Io fui tra i primi a provare ad avere il patentino, che all’epoca si otteneva: prima dimostrando di aver gareggiato in una qualche competizione di buon livello e di essere arrivato nei migliori cinque; poi con un corso di tre anni; ed infine passando un esame, che io sostenni sul ghiaccio vivo del monte Bondone, nell’inverno del 1962.
In quell’occasione misero gli esami al termine dell’Interski, un evento internazionale in cui le migliori menti dello sci mondiale si radunavano per confrontare le diverse scuole di insegnamento, e scegliere la migliore. C’erano gli americani e i tedeschi, gli svizzeri e gli austriaci, tutti professori della neve, e dopo aver assistito alle loro dimostrazioni teoriche da gran signori, venne finalmente il momento di guadagnarmi il mio piccolo titolo di maestro.
Nella notte nevicò come mai mi era capitato di vedere, e gli esaminatori furono costretti a farci salire fino alle lastre ghiacciate usate nel chilometro lanciato, pur di prendere sufficiente velocità e non finire impantanati nel metro e mezzo di fresca che si era posato sulla pista.
A salvarmi, rispetto agli altri, furono gli sci di solo metallo che decisi di portarmi dietro, più flessibili e robusti, prodigio della tecnica che ero stato il primo ad importare in Italia. Anche per questo, il mio arrivo al traguardo venne accolto da un poco lusinghiero “ah...si vedono i contrabbandieri”, gridato ai sette venti da uno degli esaminatori.
Da allora non ho più smesso di insegnare, di sciare e di provare cose nuove, seguendo passo passo l’incredibile evoluzione che ha vissuto anche il nostro Paese. Siamo stati noi a portare qui l’hot dog, e poi il freestyle, che meglio di qualsiasi altra disciplina sembrano incarnare l’anima libera e spigolosa di Livigno.
Quando in giro per il Mondo avevano già strumenti apposta per creare le piste, noi costruivamo le nostre gobbe a forza di braccia e di badili, facendoci venire i calli sulle mani pur di realizzare le discese dei nostri sogni, sul modello dei grandi campioni americani.
Ho vissuto oltre cinquant’anni di avventure sulla neve e di scoperte, di innovazioni e di follie, durante i quali ho sperimentato il più possibile, fianco a fianco con il mio paese. Abbiamo fatto sciare cinque persone contemporaneamente su un paio di sci, abbiamo fatto sciare un dromedario, provato centinaia di salti diversi e picchiato il culo almeno il doppio delle volte. Senza mai perdere lo spirito dell’inizio, quello di Don Parenti e dell’ingegner Pellentz.
E se ripenso ai livignaschi che cento anni fa partirono per andare nella scintillante St. Moritz a costruire gli alberghi dei ricchi per le Olimpiadi del ‘28, vorrei poter parlare un minuto con loro e dirgli che anche se non lo possono sapere, quel momento lì è importante, perché segna l’inizio di un percorso secolare, che si concluderà nel futuro, con i Giochi a Livigno.
A Livigno, dove cento anni fa non c’era niente.
A Livigno, dove oggi non manca niente.