Mi è sempre piaciuto raccontare storie e mi è sempre piaciuto avere tante fotografie a portata di mano, per riaccendere i ricordi che di quelle stesse storie sono protagonisti.
È curioso, a pensarci, quanta narrativa, quanto racconto ci sia in ogni singolo scatto, e come l’insieme di tutti i rullini della tua vita possa trasformarsi nel mosaico da tramandare agli altri. L’album che dice chi sei, soprattutto a te stesso.
Ogni foto un momento, ogni momento un puntino nel cielo, che se li unisci tutti poi appare la tua costellazione personale, quella che ti ha guidato fin qui e che ha dato forma all’uomo o alla donna che sei.
La mia prima foto preferita è un vero e proprio scatto rubato. Vile attacco di un paio di paparazzi male intenzionati, che hanno deciso di ignorare le mie direttive sulla privacy e di cogliermi in un momento di meritata intimità.
Quando ero bambino, ogni anno, andavamo in vacanza nello stesso posto: Lignano Sabbiadoro. All’alba, ci infilavamo nella Fiat Bravo di mamma e papà, e partivamo per quei viaggi interminabili e avventurosi, che chiunque sia cresciuto a Livigno può tranquillamente immaginare, sospesi a metà tra la voglia di arrivare presto e l’assoluta impossibilità di farlo.
Casa è lontana.
Lontana da tutto il resto.
Allora io e mio fratello Luca ci sdraiavamo nel retro della macchina, lui sui sedili e io sugli zerbini, impegnandoci al massimo per provare ad addormentarci presto e dimezzare così la durata del tragitto. Una volta arrivati “al mare” iniziavano le nostre vacanze-attive, durante le quali ci infilavamo in qualsiasi gruppo possibile immaginabile, purché si praticasse un qualche tipo sport. Bocce, ping pong, corsi in piscina, giri in bicicletta: il “cosa” non era certo importante quanto il “come”, perché su quello, di dubbi, non ce n’erano affatto.
Noi volevamo fare sport, a qualunque ora, su qualunque superficie, con qualunque compagno, e nel farlo ci sembrava quasi di aver portato con noi un pezzo della nostra terra, che sullo sport e i suoi valori è costruita dal principio.
Poi, puntuale ogni anno, c’era anche la visita allo zoo, una routine a cui noi non avremmo mai potuto rinunciare, ed è proprio in una di queste visite che è accaduto il fattaccio. Avrò avuto 5, 6 anni al massimo, e me ne andavo a zonzo con i miei amatissimi pantaloncini azzurri, quando all’improvviso ho sentito il bisogno di fare pipì. Mica un bisogno passeggero, ma una vera e propria emergenza.
Mia mamma mi ha indicato un albero: “falla lì dietro”.
“Sì, ma voi non fatemi una foto però!” per qualche curioso motivo la mia mente di bambino era preoccupatissima dalla possibilità di finire sul rullino della vacanza, proprio all’apice della mia vulnerabilità personale. Cosa che, manco a dirlo, è successa puntualmente.
Quando oggi riguardo quella foto, nel mio sorriso un po’ sorpreso e un po’ arrabbiato, un po’ divertito e un po’ pronto a vendicarsi, rivedo tutte le ore di macchina, tutti gli sport trasformati in gioco, e tutta la mia, bellissima, famiglia.
Comunque, di viaggiare, non ho smesso mai, anche se ho cominciato a farlo da solo, oppure con le varie squadre di cui facevo parte. Andare distante, fino alla fine del Mondo, è un modo intelligente per tenere acceso il legame con il bambino che c’è dentro di te, quello che sapeva fare di ogni cosa un’avventura sempre nuova.
Oggi le distanze sono completamente diverse perché, crescendo, il pianeta sembra essersi rimpicciolito, anno dopo anno, e quando la riviera non basta più a farti sentire il brivido dell’ignoto, magari può venirti incontro un viaggio in oriente, a migliaia di chilometri di distanza, protagonista della mia seconda foto ricordo.
Se non viaggi non sai: per quanto possa sembrare semplice è davvero così, e tra le cose che non avrei mai saputo senza viaggiare tanto è quanto sia unica e inimitabile Livigno.
Certe cose si apprendono col tempo, e pure con fatica, e a volte serve il confronto con l’esterno per comprendere la bellezza di quello che si ha. Certo, quando ci vai in quanto atleta, è difficile percepire per davvero l’essenza dei luoghi che stai visitando, schiacciato come sei dalle esigenze della quotidianità. Sci, palestra, riposo: l’atmosfera che respiri si assomiglia un po’ da tutte le parti, soprattutto se non ci poni la giusta attenzione.
Ma io, forse sbagliando e mancando di delicatezza, quando ho cominciato a girare l’Italia e l’Europa per le gare di biathlon, mi sono accorto di come nessuna località riuscisse mai a offrirmi tutto quello che trovavo a casa. Che fosse la maestosità delle montagne, la mancanza della neve oppure le funzionalità delle strutture: ovunque andassi finivo sempre col ritrovarmi a riflettere su quello che mancava e su quanto fossi fortunato a vivere qui.
Ogni volta che gli avversari ed i compagni si lamentavano del fatto di doversi allenare con gli skiroll fino a fine novembre, o del doverlo fare su neve artificiale, o magari ancora dell’avere a disposizione solo striminziti anelli da poco più di un chilometro, io pensavo a quanto abbiamo a casa.
Montagne sontuose, la stagione invernale più lunga d’Italia, oltre 30 chilometri di pista sotto gli sci: ho imparato che Livigno è diversa da tutto il resto, è un posto a sé. E ho imparato ad apprezzarla poco a poco, diventando grande, scoprendo che più cose vedevo e più mi veniva voglia di tornare in fretta.
Tornare a casa è l’unico vero obiettivo di ogni viaggio, perché l’idea è quella di partire, imparare qualcosa e poi riportare indietro una miglior versione di te. E quello, io, ho sempre provato a farlo, stagione dopo stagione, ringraziando il mio sport per le esperienze che mi ha permesso di vivere.
E dire che non dovevo neppure provarli, gli sci da fondo, e che se non fosse stato per le mie vertigini, oggi forse starei scrivendo una storia completamente diversa.
In principio, infatti, i miei genitori mi avevano iscritto al corso natalizio di discesa, ma quando il primo giorno mi sono ritrovato sotto alla seggiovia non ho proprio voluto saperne di salire. Piccolo com’ero, guardare in alto mi faceva sentire ancor più ristretto, come un caffè, con in corpo tutta l’agitazione del vuoto che mi separava dal cielo. Così sono passato allo sci di fondo.
Fondista per paura, sono diventato bravo per fatica, visto che il motore buono fu chiaro subito che lo avevo nelle gambe. È stato un misto di benessere e risultati a farmi innamorare della disciplina, perché i successi di categoria alimentavano la mia voglia di allenarmi, e per quanto piccoli e insignificanti potessero essere per chiunque, non lo erano per me. Poi un giorno, intorno ai 14 anni, in un pomeriggio d’estate, ho provato a sparare con il fucile di mio fratello, che era più lungo di me. E da quel momento ho avuto occhi e cuore soltanto per il biathlon.
Occhi e cuore che però, da soli, non bastano, perché quella passione che senti da giovane atleta non sei certo il solo ad averla, e la competizione che ne consegue è fatta in egual misura di vincenti e di perdenti. Mi ci è voluto un po’ per imparare a sparare come si deve e quando sono riuscito nel mio intento la combinazione tra questo e il mio pedigree da fondista di livello mi ha aperto le porte alla nazionale junior, quando ancora rientravo nella categoria giovani.
La vita da, la vita toglie, esattamente come lo sport, che ne è un riassunto perfetto, e nell’istante esatto in cui sono diventato maggiorenne e sono entrato nel Gruppo sportivo esercito, momento che per gli atleti significa, in qualche modo, “essere arrivati”, mi sono seduto, perdendo la mia carica agonistica e finendo fuori dalla nazionale junior.
La foto che ho scelto, però, non è di quel periodo, ma di qualche anno più tardi, ed è la foto che ho scattato al primo pettorale e al primo pass di Coppa del Mondo della mia carriera.
È stata una scalata, una rimonta.
È stata la conseguenza dell’essermi guardato allo specchio e di aver affrontato la persona di cui di più temo il giudizio, quella che non mi dice mai le bugie. Mi sono rimboccato le maniche e ho ricostruito il mio biathlon, risalendo dalla mediocrità e lottando con i miei limiti per diventare un professionista di alto livello.
Per questo quel pettorale vale così tanto, per me.
Perché rappresenta la riconquista di qualcosa che davo per scontato, e che nello sport invece non lo è mai, e perché racchiude, in una solo foto, tutto l’approccio che mi ha permesso di continuare a migliorare con tempo, anche quando l’età avanzava.
Approccio e voglia di far fatica, che sono valori miei ma che sono anche valori di tutti i livignaschi, e che mi hanno permesso di portare un pezzo dello spirito di casa fino al palcoscenico più importante in assoluto, quello Olimpico, che ho scelto per la mia quinta, e ultima, foto ricordo.
Lo scatto è classico, forse banale, e l’ho fatto sia a Pyeongchang che a Pechino.
Sono in posa davanti ai Cinque Cerchi del Villaggio, e nella sua semplicità esprime tutto il senso dell’esperienza che ho vissuto durante i miei cicli olimpici.
I Giochi sono la fine di un percorso lungo quattro anni e l’inizio di un viaggio analogo, che comincerà non appena si spegne il braciere e si inizierà a programmare il futuro, senza soluzione di continuità.
Ecco perché i Giochi sono come un ritorno a casa.
In viaggio prima e in viaggio dopo: queste sono le uniche due settimane in cui non stai andando da nessuna parte, ma sei immerso nel presente.
Sono tue.
Sono un attimo da vivere con tutta la coscienza che puoi, sperando di lasciare un impronta per chi verrà dopo di te.
Un istante di comunione con la tua stessa storia, in cui fermarsi a riflettere e che chiude perfettamente una raccolta speciale, quella di un album tutto mio che custodisco nel cassetto, e che ogni tanto, nei momenti che contano di più, è bello rispolverare insieme.